Intervista a Francesco Tiradritti

Oggi ho il piacere di incontrare Francesco Tiradritti, uno dei più noti egittologi italiani. Ci siamo conosciuti in occasione della presentazione della mostra sugli scavi nella tomba di Harwa a Palazzo Bricherasio a Torino nel 2004; io come al solito ero l’ushabti di Tosi e quello che Francesco disse all’inizio, con tono scherzoso, assolutamente fuori dai canoni ieratici delle conferenze egittologiche italiane: “ non invidiateci, lo facciamo già noi da soli” mi colpì subito… Benedetto toscanaccio! In seguito ho avuto la fortuna di seguire una sua conferenza al Salone del Libro di Torino nella quale illustrò l’Inno ad Aton: nello stesso periodo, sempre a Torino, aveva infatti allestito la mostra “Akhenaton. Faraone del sole”.

Mi accoglie nella sua casa in Toscana con estrema gentilezza e cortesia. Il suo studio è un paradiso per ogni appassionato di antico Egitto; libri, libri e ancora libri, ma anche fotografie, diapositive e anche una serie di Playmobil egizi! Sono felice di essere giunto sino a qui nonostante la distanza percorsa, ma capisco subito che ho fatto la scelta giusta. Gli ricordo i nostri incontri e della mostra appena citata su Akhenaton, gli dico che a mio parere è una delle migliori allestite a Palazzo Bricherasio, lui sorride e …

Si, la mostra ha avuto un buon successo, anche se purtroppo è stata pubblicizzata  in modo non adeguato. Sono convinto che avremmo potuto raggiungere un risultato ancora migliore in visitatori di quello pur lusinghiero ottenuto. Dal canto mio non la considero la mia più riuscita. Volevo illustrare un’immagine di Akhenaton libera dagli stereotipi classici. Ho previsto apposta che la mostra cominciasse con una parte dedicata al padre Amenofi III per far vedere che la cosiddetta “riforma atoniana” non nasce all’improvviso come molti credono, ma che rappresenta piuttosto il culmine di quel conflitto tra stato e chiesa che caratterizzava la vita politica egiziana ormai da tempo. In questo senso ho insistito molto con Jean-Luc Chappaz, curatore svizzero della mostra, per organizzare un evento che non si limitasse al solo personaggio principale. In realtà il mio desiderio era di risalire fino alla V dinastia, facendo vedere come il culto solare fosse quasi una caratteristica connaturata con l’essenza stessa della civiltà egizia.


Allora posso dire che la tua idea è stata molto seguita, la mostra “Tutankhamon. The Golden Age” che attualmente è itinerante negli Stati Uniti è strutturata proprio come quella su Akhenaton, è una mostra bellissima che non si limita al personaggio del faraone ma si estende al periodo Pre-amarniano e Amarniano, esponendo dei pezzi a mio parere sublimi, soprattutto quelli provenienti dal corredo funebre di Yuya e Tuya.

Non credo che quella mostra si rifaccia a una mia idea. Mi sembra abbastanza logico inserire in un dato contesto l’argomento che si desidera trattare. Vero è che in altri casi, parlo delle mostre itineranti organizzate dagli egiziani negli ultimi anni, ci si è basati esclusivamente su reperti da me selezionati per la mostra “i Faraoni” del 2002 a Palazzo Grassi a Venezia


Adesso però devo farti una domanda classica: quando è nato il tuo interesse, il tuo amore per l’Egitto?

Nel corso degli anni mi è stata fatta molte volte questa domanda e a lungo non ho saputo darvi una risposta. Mi è poi tornato in mente un episodio di quando ero un bambino di otto anni. A scuola avevo una maestra che non saltava mai un giorno di lezione. Non è venuta tre volte in cinque anni. In quei tre giorni, guarda caso, era proprio programmata la lezione sulla civiltà egizia. Fin qui nulla di strano. La supplente che venne mandata nella nostra classe era però mia madre, maestra anche lei e all’epoca a disposizione della direzione. Gli egizi me li ha spiegati per la prima volta mia madre. Alla fine della giornata disse: “Studiate che domani vi interrogo”. Nel pomeriggio, siccome ero il figlio della maestra, ho fatto il furbo e non ho studiato. Lei però se ne era accorta. Così il giorno dopo mi ha interrogato. Non sapendo nulla ho tentato di metterci una pezza. Lei allora mi ha detto: “Se domani non sai gli egizi TI MUMMIFICO!”. Mi ricordo la classe che ride. Per me è stato un trauma. Da quel momento è cambiata la mia vita. Posso perciò dire che la mia più che una passione è una frustrazione e che, in fondo, sto ancora cercando di dimostrare a mia madre che gli egizi li ho studiati, che ho imparato la lezione.


Però io  so per certo che ami profondamente l’Egitto e la sua gente;  mi è capitato un pomeriggio  di vedere su un taxi della Riva Ovest  di Luxor una petizione che chiedeva che non venissero abbattute le case di Qurna, cosa che poi è invece accaduta. Tra le varie firme vedo anche la tua! Il tassista mi guarda e dice:  “yes Francesco, our best friend”.

Ma sai… Io oramai sono mezzo Qurnauy. Sono ventitré anni che vivo parte dell’anno in mezzo a quella gente, come potrei non amarli?

Tra l’altro ti do uno scoop: dovrebbe uscire proprio in questi giorni un fumetto, disegnato da Golo, che si intitola “Chroniques de la nécropole” in cui compaio pure io.

Golo è un francese che ha una casa davanti al Ramesseo, lo conoscevo di fama ancora prima di incontrarlo di persona, poiché avevo letto un suo fumetto, che avevo trovato su una bancarella, dal titolo “L’homme a la tête de sphinx”. E’ la storia del mitico Sheikh Aly, che abitava nell’albergo omonimo (il vero nome dell’albergo è Marsam Hotel NdR) che si trova vicino all’hotel Pharaon, davanti alla biglietteria, per intenderci.

E’ un posto storico. E’ stato la prima sede della Chicago House ed è stato poi acquistato da Sheikh Aly Abd-El-Rasul, discendente della famosa famiglia protagonista della scoperta della Cachette di Deir el Bahari.

All’interno dell’albergo Sheikh Aly vi aveva fatto costruire una residenza apposta per Donadoni che vi ha soggiornato qui per diversi anni, io stesso ci sono stato dal 1988 al 2006, fino a quando mi sono trasferito a quella che oggi è Casa Italia. Casa Italia è per me la realizzazione di un sogno lungo anni.


Ecco, a proposito, come sei arrivato a lavorare nella tomba di Harwa? Come sei stato scelto?

Non sono stato scelto per lavorare da Harwa, sono io che ho scelto Harwa. Ho cominciato i miei studi a Roma, con Donadoni, perché per me che abito a Montepulciano era più comodo recarmi a Roma che non a Firenze o Pisa. Nel 1988 mi ha portato con lui a lavorare nella tomba di Sheshonq nella zona di Assasif. Il professor Donadoni era molto esigente. Mi ha rimproverato molte volte perché lui riteneva che non scrivessi bene i geroglifici (Non è così… Mentre mi parla apre un quaderno dove con molta precisione a matita sono vergati con sicurezza le parole del dio, NdR). Quando alla fine gli ho portato un lavoro che mi sembrava più che soddisfacente, lui mi ha detto: “Sì, va bene… Ma da destra a sinistra?”. Nello staff di Donadoni c’era anche il Professor Roccati che ha preso poi la direzione della missione.

Nel 1992 consegno a lui l’articolo sul capitolo 146 del Libro dei Morti nella Tomba di Sheshonq che doveva essere pubblicato su Vicino Oriente. In quell’occasione mi fa la seguente osservazione: “Non ha però tenuto in considerazione questa versione…”. E mi fa vedere tre foto. In due di esse non c’era traccia del capitolo 146, ma nella terza sì, ed effettivamente era una versione di cui non sospettavo l’esistenza. Alla mia domanda sulla provenienza delle fotografie Roccati mi rispose che le aveva scattate nella tomba di Harwa. La prima volta che mi recai a Luxor chiesi alle antichità locali di poterci entrare, ma purtroppo la tomba era all’epoca inaccessibile e dovetti rinunciare.

Nel 1994 ebbi però l’occasione di organizzare una mostra al Museo Egizio del Cairo su Luigi Vassalli, egittologo italiano del XIX secolo collaboratore anche di Mariette.

Approfittando della buona reputazione che la mostra mi aveva procurato presso gli egiziani chiesi il permesso di entrare in due tombe copiate dal Vassalli, e tanto che c’ero, inserisco anche la Tomba di Harwa. Dopo un po’ di tempo ricevo una lettera in arabo. Avendo però una conoscenza dell’arabo soprattutto parlato non la capisco bene e mi convinco che si tratti di un diniego. Un giorno decido però di farmela tradurre seriamente da Tareq, un ragazzo egiziano che studiava a Roma, e scopro che avevo avuto il permesso di studiare (non di scavare) nelle tre tombe richieste. Purtroppo in quel periodo del 1994 ero già tornato in Italia ed ero convinto di aver perso un’occasione. Invece Tareq mi disse che potevo scrivere dicendo che per vari motivi ero costretto a rimandare la missione di studio al 1995. Si offrì anche di scrivere la lettera in arabo per mio conto.

Nel 1995 arrivo  in Egitto con il permesso ma trovo inaspettate difficoltà ad entrare nella tomba, nonostante l’appoggio personale di Abd-El-Khalim Nur-el-Din, allora Segretario generale del Consiglio Superiore delle Antichità. Pensavo che ciò dipendesse dalla cattiva nomea che avevano gli italiani a Luxor, considerati come quelli che iniziano lavori senza finirli. Solo in seguito ho scoperto che c’era un ispettore del Servizio delle Antichità che aveva promesso la concessione della tomba di Harwa all’egittologo tedesco Erhart Graefe e faceva di tutto per farmi desistere. Dopo giorni di inutili tentativi mi sono deciso a telefonare a Sausan, segretaria di Nur-el-Din. Le ho detto che nonostante il permesso concessomi non mi facevano entrare. Lei mi dice di non preoccuparmi e di tornare all’ispettorato. Erano tutti lì ad aspettarmi, arrabbiati ma ormai impotenti e rassegnati a consegnarmi la chiave che era già sul tavolo davanti a loro.

Entrato finalmente nella tomba comincio a cercare, foto alla mano, il capitolo 146 del libro dei morti che mi interessava. Nella parete nord della prima sala ipostila identifico le iscrizioni delle prime due foto, ma della terza nessuna traccia. Continuo a cercare senza risultati. L’indomani percorro tutto il corridoio che circonda la Tomba di Harwa e scopro un’apertura attraverso la quale accedo a un sala ipostila non decorata, dalla quale passo in cortile e da qui in un’altra sala ipostila, stavolta decorata, dove riesco infine a identificare la terza fotografia e, conseguentemente il capitolo 146 del Libro dei Morti.  Mi accorgo però che mi trovo ormai nella tomba di Padineith e non più in quella di Harwa.

Mi sono così ritrovato con la concessione di una tomba che non mi interessava. Ho cercato di cambiare, ma la risposta è stata negativa: avevo voluto Harwa e Harwa dovevo tenermi.  Allora ho cominciato alcuni lavori di restauro assolutamente necessari all’interno della “mia” concessione. Poi, riflettendo meglio, mi sono detto che quella poteva essere l’occasione della mia vita. Ho  iniziato a lavorare con i miei soldi poiché non avevo finanziamenti.

In seguito sono purtroppo emerse incomprensioni con Roccati, dovute anche al fatto che il Graefe faceva pressioni su di lui, oltre che su di me, per convincermi ad abbandonare quella che lui riteneva la “sua” tomba. Andava dicendo che per colpa mia non poteva ottenere un finanziamento molto ingente. A quel punto, e siamo nel 1996, stavo per cedere. Ilaria, la mia compagna di allora, mi dice chiaro e tondo che se mi ritenevo un vero uomo, avrei dovuto andare fino in fondo. Ho spedito la documentazione necessaria per il rinnovo della concessione cinque minuti prima che l’ufficio postale chiudesse. Così, l’indomani, ricevendo l’ennesima intimazione a smettere, ho potuto dire che era troppo tardi.

Quell’anno ho comunque trovato difficoltà nel riaprire gli scavi. Vengo convocato nell’ufficio di Zamalek, al Cairo, dal nuovo direttore delle antichità Alì Hassan che, dopo avermi fatto aspettare cinque ore, mi riceve per dirmi di scordarmi la concessione. In quell’occasione sono intervenuti in mio favore alcuni egittologi egiziani come Faiza Heikal Mohammed Soghair e Mohammed Saleh. Senza che nulla chiedessi loro hanno scritto lettere di protesta per farmi continuare i miei lavori.


Fino ad ora abbiamo nominato Harwa parecchie volte ma chi era veramente questo personaggio? Perché era così importante?

Sicuramente era un personaggio molto influente, potremmo paragonarlo a un primo ministro contemporaneo. Come si suole dire è uno che si è fatto da solo, nel senso che non proveniva da una famiglia importante ma è riuscito comunque ad arrivare al massimo grado della gerarchia amministrativa a Tebe. L’idea che ci siamo fatti a partire dal 1997, quando è stato trovato l’ushabty con le insegne della regalità in mano, è che a quell’epoca (XXV dinastia NdR) esistesse una specie di dinastia parallela di funzionari tebani. La teoria più accreditata fino a oggi voleva che Tebe fosse governata dalla Divina Adoratrice di Amon (Amenirdis, Shepenupet etc) sotto l’egida del sovrano. Quello che sembrerebbe invece risultare dai nostri scavi è che i re nubiani delegassero il proprio potere a funzionari tebani e che il ruolo della Divina Adoratrice fosse di pura supervisione.


Potremmo paragonare questa situazione a quella venutasi a creare alla fine dell’Antico Regno, quando si dissolse il potere centrale?

No, è diversa. In quel caso il potere centrale si era frantumato a favore di varie famiglie di governatori già esistenti, che avevano reso ereditarie le cariche ufficiali e accresciuto e radicato il proprio potere, creando altri stati dentro allo stato. Nella XXV dinastia è proprio per evitare una situazione di questo tipo che il potere passa da una famiglia all’altra, quindi il mio utilizzo improprio del temine “dinastia” sta soltanto a significare che c’è una serie di funzionari che si succedono l’uno all’altro pur non essendo legati da vincoli di parentela.

I funzionari portavano titoli diversi, non connessi con la funzione di governo. Secondo la mia ricostruzione il primo è stato Padi-amon-neb-nesut-tauy, ricordato da Piankhy, che era un Sacerdote-lettore. Il secondo è Harwa, Grande Maggiordomo della Divina Adoratrice, il terzo Montu-em-hat, Quarto Sacerdote di Amon e Sindaco di Tebe, in seguito troviamo Petamenofi, che è un altro Sacerdote-lettore. Il Sommo Pontefice di Amon rimane, in questo periodo, una figura secondaria, proprio per evitare i problemi che c’erano stati durante tutta il Nuovo Regno e che avevano portato alle ben note divisioni del paese.

Potrei quasi dire che è proprio questo il motivo per cui mi sono interessato ad Akhenaton. Mi serve a comprendere meglio questa dicotomia tra stato e clero che, guardando la storia egizia con maggiore attenzione, è rintracciabile già  a partire dall’Antico Regno.

Harwa può essere considerato una sorta di governatore dell’Alto Egitto, che agisce sotto il controllo della Divina Adoratrice.


Parliamo un po’ della situazione attuale dell’Egitto,quale è il tuo parere su quello che è successo e cosa è cambiato in seguito ai noti eventi?

Secondo me è cambiato tutto senza cambiare niente. Vedremo se ci sarà un vero cambiamento con le elezioni di settembre. 


Invece per voi egittologi cosa è cambiato, se è cambiato qualcosa?

Al momento è tutto come prima.  Un cambiamento è però in atto ormai da tempo. Gli egittologi egiziani sono molto cresciuti a partire dalla seconda metà degli anni Novanta. E qui il merito va attribuito a Abd El-Khalim Nur-el-Din. Ora ci sono giovani egiziani con i quali si può parlare seriamente di egittologia molto più che con colleghi di altre nazionalità. Sto parlando di giovani che hanno tra i venticinque e i trent’anni. Questa è una cosa che Hawass ha capito bene. Nei prossimi anni ci troveremo a essere non più protagonisti, ma co-partecipi delle scoperte. A proposito di questo, quando Hawass ha detto che tutte le scoperte dovevano passare attraverso di lui, mi sono sentito derubato. Poi ho capito che in realtà a nessuno viene sottratto nulla: tutti sanno, per esempio, che se viene fuori qualcosa dalla tomba di Harwa non è Hawass che l’ha trovata. A me non importa molto quello che dicono i media.

Il futuro appartiene alle nuove generazioni di egittologi egiziani e trovo che sia giusto così. In fondo se scavo la tomba di Harwa, la restauro, ci spendo somme ingenti e non riesco a formare una classe di giovani egittologi egiziani che ne capiscano l’importanza in quanto tale ho fallito in pieno la mia missione. Se non riesco a fare questo e non pubblico quello che scavo, quale differenza c’è tra me e un tombarolo? La risposta è: io sono soltanto più stupido, visto che non ci ho ricavato neppure un guadagno personale…


Ma abbiamo l’esempio di Otto Schaden, che ha scavato nella Valle dei Re trovando la KV63 e il merito se lo è preso Hawass. Come ti comporteresti se qualcuno volesse privarti del merito delle tue scoperte? Sai Francesco io sono rimasto colpito tre anni fa a vedere otto Schaden lavorare a luglio nella Valle! Gli ho chiesto: “ma perché scava a luglio? ” e lui: “ perché il Supreme Council mi ha dato tempo solo fino a settembre!”

Prima di tutto bisognerebbe vedere se Hawass riuscirebbe a fare con Harwa quello che ha fatto con la KV63. Ci sono contratti da rispettare da entrambe le parti…


Ma se volesse toglierti Harwa non credi che ci sarebbe subito qualcuno pronto a subentrare?

Devi sapere che la tomba di Harwa è un gran caos. Cominciare a impegnarcisi da ora non sarebbe un regalo. Il progetto Harwa è estremamente impegnativo e, da ora in avanti, c’è molto poco da scoprire e tantissimo da ricostruire. Se poi Hawass vuole venire nelle tomba con una troupe televisiva faccia pure, basta non facciano danni.

Fa parte del mestiere di Hawass attirare l’attenzione sui monumenti egiziani. E’  un modo per ottenere finanziamenti dagli sponsor per nuovi scavi, per nuovi investimenti. Ovviamente far conoscere quello che faccio interessa anche a me, nel senso che se scavo la tomba di Harwa e non pubblico nulla, come ho detto poc’anzi, commetto un misfatto. Il mio compito è dare resoconto di quello che trovo, e sono ancora in debito, devo ancora pubblicare molte cose. Le pubblicazioni saranno in inglese. Con i miei collaboratori stiamo lavorando contemporaneamente ai primi tre volumi sui rapporti di scavo della tomba di Harwa: una raccolta di studi su ritrovamenti particolari compiuti negli ultimi anni, i cataloghi della ceramica e degli ushabty ritrovati nel primo livello sotterraneo.


Nel tuo blog hai scritto:”io cerco di fare l’egittologo”.Come si fa l’egittologo in Italia?

Vorrei fare un distinguo. Un conto è fare l’egittologo, un altro il ricercatore o il professore di egittologia, un altro ancora dichiararsi egittologo. A me interessa avere un posto nel “Who was Who of Egyptology” e riuscire a campare onestamente con il mio lavoro.

Per definizione un egittologo, come tutte le parole che finiscono in logo è qualcuno che “parla” e perciò compie ricerche su una determinata disciplina, in questo caso l’egittologia. In Italia, per diventare professore devi fare tutto tranne che la ricerca. A me, purtroppo, piace ricercare. Nel 1996 mi è però stato detto che, se avessi continuato a occuparmi della tomba di Harwa mi sarei precluso la carriera accademica per sempre. Promessa mantenuta… Ho partecipato a un paio di concorsi senza vincerli.

Mi piace l’archeologia da campo, ma non mi mancano le altre competenze che ritengo necessarie per essere considerato un egittologo: so, per esempio, leggere i testi e ho una buona conoscenza dei manufatti egizi, derivanti da una lunga esperienza nei musei di lavoro in museo. Ho cercato anche di farmi una qualche conoscenza che ritengo fondamentali per la conduzione di uno scavo. Pare però che in Italia queste conoscenze non siano indispensabili per diventare cattedratico in egittologia.


Non credi che se fossi stato meno intransigente, meno schietto, se vogliamo anche meno toscano, avresti avuto meno difficoltà?

Sicuramente. Ho però un curriculum che, senza false modestie, pochi hanno in Italia. Se nei concorsi cui partecipo vince chi ha maggiori titoli, lo accetto di buon grado. Come è già avvenuto in passato. Non mi sembra che però questo sia avvenuto nel caso dell’ultimo concorso cui ho preso parte. Per questo ho fatto ricorso.

Come toscano ho fama di avere un caratteraccio. Il che non è proprio esatto. Mi arrabbio se mi reputo vittima di un sopruso. Chi mi può dare torto? Purtroppo sono un po’ ingenuo e facile preda di chi mi vuole raggirare. Talvolta perdo anche le staffe. Mi sfogo e mi passa. Preferisco essere così, piuttosto che trascorrere il mio tempo a tramare nell’ombra e  accoltellare la gente alla schiena. Questo sembrerebbe invece essere il passatempo preferito di molti miei colleghi. Perché invece non vanno a lavorare? Perché non fanno qualcosa di egittologico?

Quando ero giovane ero anche molto presuntuoso e saccente. Se mi fossi trovato a dirigere uno scavo in cui c’ero io quando avevo trent’anni, mi sarei auto-preso a calci nei denti!

Trovo però la stessa presunzione, la medesima saccenteria e la voglia di polemizzare anche in alcuni giovani collaboratori che lavorano con me. Mi ci riconosco perfettamente, ma non per questo non ci discuto, anche animatamente. Su uno scavo può accadere che si litighi. Non sempre ho ragione io però mi secca ammetterlo. Dovresti vedere il godimento del mio occasionale oppositore quando ha ragione e sono costretto ad ammetterlo. E quanto mi secca…


Hai partecipato al concorso per diventare Direttore del Museo Egizio di Torino?

Ho partecipato. Sono rimasto deluso per non avere vinto, credo sia normale. In fondo, però, mi sono sentito sollevato. Se avessi avuto il posto, avrei dovuto rinunciare agli scavi. Come dire dar via un pezzo di cuore. Di quel lavoro mi interessavano soprattutto lo stipendio ed ero anche attirato dalla sfida di costruire qualcosa di nuovo.

Molti miei colleghi sono contrari e avversano apertamente Eleni Vassilika. Io dico che sarebbe meglio lasciarla lavorare senza metterle continuamente i bastoni tra le ruote. Sono stato recentemente a Torino e ho visto che sta facendo buone cose. L’allestimento di Kha mi è piaciuto. Ho trovato un po’ angusta la sistemazione degli oggetti del Primo Periodo Intermedio. Ogni spostamento è però temporaneo ed è lecito che, in mancanza di spazio, si privilegi quello che il pubblico può apprezzare maggiormente. Per quanto siano unici e preziosi i corredi funerari dei centri provinciali non rientrano tra le maggiori attrazioni dell’Egizio di Torino.

E’ ridicolo, direi grottesco, vedere che quelli che oggi avversano la Vassilika sono gli stessi che hanno affossato la mia candidatura. E’ palese che quel posto lo ambissero per volessero loro. Se ciò fosse avvenuto, sarebbe stato come se a dirigere la FIAT avessero messo qualcuno soltanto per il fatto di essere in grado di guidare una Punto. I detrattori della Vassilika dimostrano una scarsa professionalità e, oltretutto di avere poche o punte conoscenze, di cosa sia un museo oggigiorno. Per una struttura mastodontica come Torino ci vorrebbe un direttore con un curatore capo egittologo. Più altri curatori egittologi.

Mi domando anche cosa queste persone abbiano da blaterare. La Dottoressa Vassilika non è un’egittologa che ha maturato una notevole esperienza in musei importanti come il Metropolitan, Cambridge e Hildesheim? Lei no. Io no. Ma chi ci avrebbero voluto mettere? Loro? Che profonda pena…


Ora vorrei farti una domanda un po’ particolare: eri amico del compianto Maestro Giuseppe Sinopoli, straordinario direttore d’orchestra e grande appassionato di archeologia scomparso dieci anni fa. Che persona era?

Si parla sempre bene dei morti e io sembra che parli sempre male dei vivi. Ecco. Di Giuseppe Sinopoli avrei parlato bene anche da vivo.  Posso dire che era veramente una grande persona. Mi raccontò di avere incontrato nel mondo della musica gli stessi problemi che ho io con il mondo accademico. Nelle nostre ultime conversazioni mi disse di essere molto stanco dell’ostracismo, dei bastoni fra le ruote, delle continue difficoltà che aveva in ambito italiano.

Una volta, ridendo, mi aveva detto che ci accomunava il fatto di avere avuto maestri dai nomi simili. Io Donadoni, lui Donatoni. Diceva che, in fondo, quello che ci separava era solo una dentale. Anche lui aveva avuto problemi con il proprio maestro. Sono i problemi che nascono con i veri maestri: un allievo per ottenere una propria autonomia deve un “tradire” il proprio maestro, altrimenti è solamente un epigono.

Ho conosciuto Sinopoli nel periodo in cui avevo appena iniziato a lavorare a Harwa. E’ venuto a trovarmi con la moglie Silvia e aveva in mente di organizzare un concerto per raccogliere finanziamenti per il mio lavoro. Se fosse riuscito a farlo sarebbe stato magnifico. Mi aveva  parlato di una somma ingente. Purtroppo è venuto a mancare prematuramente e improvvisamente.

Possedeva  anche una interessante collezione egizia che aveva formato con un occhio da intenditore e non come un semplice amante della materia.


Lasciando da parte Harwa, quale è il luogo in Egitto che ti emoziona maggiormente?

Forse è il santuario della dea Mertseger a Deir el Medina. E’ un luogo che ho scoperto perché vi si trova incisa una stele di Ramesse III che ho studiato per il mio dottorato e sto per pubblicare. Si tratta di una serie di cappelle rupestri scavate fra Deir el-Medina e la Valle delle Regine. Ci andavo preferibilmente al tramonto. In quegli anni era ancora possibile muoversi con una certa libertà sulla Riva Ovest di Luxor.

Un altro luogo che mi emoziona molto è Casa Italia (la residenza della Missione Archeologica Italiana a Luxor, NdR). E’ bellissimo risvegliarsi e affacciarsi sulla montagna tebana, oppure godere di tramonti mozzafiato: sono momenti di pura estasi.


Come scegli i tuoi collaboratori?

Negli anni passati, attraverso l’Associazione Culturale “Harwa 2001” ONLUS con la quale raccolgo i fondi per i finanziamenti, ho organizzato corsi estivi di egittologia. Ai vincitori venivano offerte borse di studio che gli consentivano di partecipare agli scavi. Ho anche dato l’opportunità ad altri che ritenevo meritevoli di venire a proprie spese. Il prossimo anno riprenderò a organizzare questi corsi per dare la possibilità ad altri studenti di partecipare a uno scavo archeologico.


Un’ultima domanda,cosa c’è nel tuo futuro?

Anzitutto lo scavo di Harwa, anche se vorrei gradualmente lasciare spazio ai giovani, ne parlavo prima. Uno scavo è faticoso sia dal punto di vista intellettuale che fisico. Sto pensando di lasciare la direzione attiva a qualcun altro nel giro di qualche anno, pur mantenendo un ruolo di consulente e l’obbligo della ricerca di fondi. Non intendo certo abbandonare il mio successore alla propria mercé. Non sarebbe un bel gesto, soprattutto con tutti i finanziamenti che devono essere ancora reperiti. Io ho iniziato con i soldi che mi davano i miei genitori e con l’aiuto di mio fratello e della mia compagna. Poi sono venuti gli altri sponsor. 

Devi sapere che oggi per me è un giorno triste perché è venuta a mancare la prima persona che ha creduto in me, al di fuori della mia famiglia, e mi ha dato un po’ di denaro per potere lavorare. Si chiamava Marco Bianchi e voglio ricordarlo perché gli sarò per sempre riconoscente.

Termina qui il mio lungo colloquio con Francesco Tiradritti. Vorrei segnalare a tutti due siti che sono da lui personalmente curati dove potrete trovare tutte le informazioni su Harwa.

http://www.harwa.it/

http://harwa61.blogspot.com

 Sandro Trucco

Si ringrazia per la preziosa collaborazione Mirko Balocco

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