<p style="text-align: justify;"><strong>La prima domanda a Moiso è quella di prassi : come è nato il suo amore per l’Egitto?</strong><br /> Come penso per molti altri è stata una casualità. Nel 65, ancora ragazzino, ho visitato il Museo Egizio. A quei tempi, come accade ancora oggi, si era soliti andare a visitare il Museo con la scuola. Io rimasi affascinato dalla “solarità “di questa civiltà ammirandone le decorazioni policrome, le pitture e i rilievi, che sprigionavano un profondo senso di gioia. Quasi subito ebbi modo di conoscere il prof. Silvio Curto che mi fu presentato dalla bibliotecaria di allora, la signorina Maria Rosa Orsini, che poi venne ad abitare ad Aramengo, un paesino del Monferrato che frequentavo in estate. Lei mi introdusse in quel gruppo di cultori della materia e così presi a frequentare metodicamente il museo, specialmente al sabato, che allora era lavorativo. La signorina Orsini iniziò ad affidarmi dei compiti in biblioteca e così mi trovai fianco a fianco con Alessandro Roccati, che era stato assunto come custode e con Mario Tosi che cercava costantemente di fuggire dalla azienda di famiglia …<br /> Agli inizi degli anni 70, in occasione della riorganizzazione del Museo, iniziai a collaborare, oltre che con le persone sopracitate, con la dr.ssa Anna Maria Donadoni Roveri che da poco era giunta a Torino. Presi così parte al riallestimento di alcune sale, venendo a contatto materialmente con i reperti tanto amati. Nel 76 entrai a far parte della Missione Archeologica dell’Università di Roma “La Sapienza”, lavorando sui cantieri egiziani di Tebe e Gebelein e in quello sudanese di Gebel Barkal diretti, prima da Sergio Donadoni e poi da Alessandro Roccati. Dal 2005, questi scavi sono passati all’Università di Torino con la nascita della cattedra di Egittologia.</p> <p style="text-align: justify;"><strong>Mi rendo subito conto di aver davanti a me la “memoria storica del Museo” , Moiso si schernisce dicendo che è così solo perchè ormai le persone più anziane di lui hanno lasciato il loro posto ma non è una questione temporale, e me ne renderò conto nel prosieguo della nostra chiacchierata. </strong></p> <p style="text-align: justify;"><strong>Gli anni 60- 70 sono stati gli anni in cui in Egitto si lavorava alacremente per salvare i templi nubiani condannati alla sparizione in seguito alla costruzione della grande diga di Aswan; Torino, grazie soprattutto al prof. Curto, ha avuto un ruolo fondamentale in questo salvataggio, cosa ricorda?</strong><br /> Una frase prima di tutto! Una mattina di maggio del 1967 Silvio Curto, a seguito della mia ennesima richiesta di voler imparare a leggere i geroglifici e sul come poterlo fare, allora a Torino non c’erano corsi di alcun genere, mi disse un po risentito, ”Volete studiare tutti i geroglifici! Ma noi oggi abbiamo bisogno di architetti, guarda nel cortile !” E nel cortile c’erano le 70 casse giunte da pochi giorni a Torino, contenenti i blocchi segati del tempio rupestre di Ellesija. Curto non riusciva infatti a trovare tecnici che fossero in grado di ricomporlo. Il caso volle che, poco dopo, sarebbero state due ditte di Aramengo ad essere incaricate del suo assemblaggio e del restauro !<br /> Tra pochi giorni sarà disponibile un nuovo volume di Silvio Curto, in cui viene descritto il salvataggio e l’operazione di rimontaggio del tempio nel Museo. Spesso si dimentica quale grande operazione fu questa! La R.A.U. (Repubblica Araba Unita, vecchia denominazione voluta da Nasser ndr) di fatto donò il tempio al nostro Paese, ma tutto il lavoro di recupero, trasporto e montaggio in Italia era a carico del Museo e …, ora come allora, di soldi c’è n’erano proprio pochi. Tuttavia Curto seppe fare il miracolo! <br /> A questo proposito va ricordata la figura, recentemente scomparsa, di Carla Maria Burri, allora Direttrice dell’Istituto Italiano di Cultura al Cairo, che con la sua assistenza aiutò a rendere possibile questa impresa. <br /> <br /> <strong>Lei Beppe Moiso è il presidente di una grande associazione l ‘A.C.M.E. (Amici Collaboratori Museo Egizio) che conta oltre 300 affiliati. Per noi piemontesi ACME è sinonimo di grande amore per l’Egitto, le conferenze presentate sono sempre di grande interesse, mai banali o scontate, così come i quaderni che annualmente vengono pubblicati. Come nasce l’associazione?</strong><br /> È nata nel 1974 in occasione del 150° Anniversario della fondazione del Museo torinese. Curto, insieme agli altri soci fondatori, intendeva creare una struttura che, oltre a diffondere scientificamente la cultura dell’antico Egitto, fosse in grado di gestire le donazioni fatte al Museo da parte di associazioni e privati, cosa giuridicamente impossibile per il Museo. Era quindi indispensabile la presenza di un tramite tra i privati e il Museo, utile per favorire l’acquisto o il restauro di reperti, inoltre era necessario promuovere e sovvenzionare la stampa di pubblicazioni egittologiche; questi furono, in sintesi, i principali scopi dell’ACME. <br /> Per quanto riguarda la diffusione della cultura dell’antico Egitto, a Torino allora non c’era molto, nonostante la presenza del Museo, e spesso eravamo costretti a trasferte, in auto o in pullman, organizzando vere “gite culturali”, per poter ascoltare le comunicazioni di egittologi famosi. Pochi anni dopo, con la nascita dell’ACME, venne offerto annualmente ai soci un programma di conferenze mensili . Si volle, da subito, mantenere, seppur con taglio divulgativo, uno stretto rigore scientifico. Per molti anni, dopo le lezioni universitarie, per gli appassionati veniva l’ACME. Nel tempo abbiamo sempre creduto e perseguito questo obbiettivo , specie in questi ultimi tempi in cui la fagocitante e incontrollata diffusione di notizie e servizi televisivi, rendono sempre più difficile un corretto approccio al mondo dei Faraoni.</p> <p style="text-align: justify;"><strong>So che oltre ai cicli di conferenze organizzate convegni, viaggi e stampate volumi, ma come si finanzia l’ACME?</strong><br /> L’iscrizione alla nostra Associazione comporta il pagamento di una quota minima di 15 Euro, una cifra che da sola non consente di sviluppare una così vasta attività e pertanto siamo grati ad ogni altra forma di sponsorizzazione, promossa da Enti o Istituzioni Pubbliche e Private.<br /> Il particolare siamo grati alla Direzione del Museo per l’ospitalità accordata ai nostri uffici. Ricordiamo poi l’indispensabile sostegno economico da parte dell’Associazione degli “Scarabei”. Inoltre grazie al MIBAC, Biblioteca Nazionale Universitaria di Torino, abbiamo risolto felicemente il problema della sala conferenze e mostre. Accade poi che da alcuni soci, tra i più affezionati, vengano riconosciuti all’ACME contributi particolari, espressi anche con volontà testamentarie.<br /> A tutto questo si è da poco aggiunta la possibilità, da parte dei contribuenti al fisco, di poter riservare nella loro annuale Dichiarazione dei Redditi, la percentuale del 5 per 1000, in favore della nostra Associazione.</p> <p style="text-align: justify;"><strong>La via per Menfi e Tebe passa per Torino diceva Champollion. Le vecchie teche in legno che custodiscono i preziosi papiri torinesi, che sono stati determinanti per la decifrazione della scrittura egizia, in che condizione sono?</strong><br /> Lei ha bene ricordato il ruolo determinante che ha avuto il nostro Museo nell’opera di decifrazione dei geroglifici da parte di Champollion, che venne a Torino per testare i risultati delle sue scoperte, sullo straordinario materiale archeologico che da poco era giunto in città. <br /> Oggi la maggior parte dei papiri esposti, sono conservati nelle teche originali che risalgono al nuovo allestimento del Museo, voluto dal direttore Ernesto Schiaparelli, nei primi anni del 1900. Il problema della loro conservazione è molto complesso, specie se si intende mantenerli costantemente in esposizione. La Direzione del Museo ha ben presente questo problema, ma per il momento i papiri restano al loro posto, in attesa degli importanti interventi di riallestimento museale. Sarà questa una prossima occasione per esaminare il duplice problema, conservazione – esposizione, ricorrendo alle moderne e sofisticate tecniche espositive. <br /> Il Canone Reale invece, dal novembre del 2000, è stato collocato in una moderna teca esposta in una saletta al piano terreno, insieme agli elementi fondanti della cronologia egiziana.</p> <p style="text-align: justify;"><strong>Interviene Mirko Balocco: “vorrei sapere se è vera la notizia che si vorrebbero effettuare nuovi studi sul Papiro Regio per verificarne l’esattezza cronologica”</strong><br /> Il Canone Reale giunse a Torino con la drovettiana già in condizioni frammentarie e così fu visto da Champollion nel 1824. Non commento le recenti illazioni sul fatto che Drovetti lo avrebbe ulteriormente danneggiato (visto che poi intendeva venderlo) , sono ipotesi ridicole, basate sulla antica leggenda che vorrebbe che al momento del acquisto, fosse stato intatto. In realtà il papiro giunse a Torino in una cassetta con altri papiri più o meno nelle stesse condizioni, un ammasso di piccoli frammenti mescolati tra loro; questo ne rese difficile da subito la ricomposizione, lo stesso Champollion ne indentificò con certezza soltanto quarantotto.<br /> Studi successivi condotti a più riprese e basati su rinnovate metodologie, supportate da nuovi indizi storici, portarono nuovi elementi che permisero a Giulio Farina, nel 1938, di pubblicare un primo studio completo. <br /> Nel corso degli anni molti studiosi, tra cui il Gardiner, si sono occupati di questo documento, fondamentale per la cronologia egizia, suggerendo modifiche o integrazioni di nuovi frammenti. Ben vengano quindi i recenti studi condotti in Inghilterra, se porteranno nuovi risultati. L’importante è che prima di mettere mano al papiro, siano d’accordo la maggior parte possibile degli studiosi a livello internazionale! <br /> <strong><br /> Sono veramente affascinato dalla memoria storica di Moiso, e dalla sua lucida esposizione di avvenimenti accaduti molti anni or sono. E sono proprio questi ricordi che mi portano a parlare della figura principale del Museo, Ernesto Schiaparelli.</strong></p> <p style="text-align: justify;"> </p> <p style="text-align: center;"><a href="https://www.egittologia.net/Store/tabid/86/List/1/ProductID/74/Default.aspx"><strong><img height="316" width="221" alt="Ernesto Schiapparelli e la Tomba di Kha" src="/Portals/0/Store/SchiaparelliBIG.gif" /></strong></a></p> <p style="text-align: center;"><a href="https://www.egittologia.net/Store/tabid/86/List/1/ProductID/74/Default.aspx"><strong>Disponibile a prezzo speciale nello store di Egittologia.net</strong></a></p> <p style="text-align: justify;"> </p> <p style="text-align: justify;"><strong>Lei ha collaborato alla pubblicazione di un bellissimo volume che parla della scoperta della tomba di Kha da parte di Ernesto Schiaparelli Quello che mi ha colpito in questo libro è la straordinaria umanità che traspare dall’archeologo piemontese. <br /> Mi sono emozionato nel sapere che luoghi tanto amati da me, come la Missione Francescana di Luxor, erano quelli scelti da Schiaparelli per il suo soggiorno. Cosa l’ha spinta a indagare sulla persona dello Schiaparelli e come ha trovato tutti i documenti citati nel libro?</strong><br /> Per parlare di Ernesto Schiaparelli e della sua attività occorrerebbero più incontri e certo in pochi minuti non potrò che tratteggiarle la figura, l’ingegno e la forte personalità che possedeva.<br /> Innanzitutto quando iniziai a frequentare il Museo mi aveva colpito come a distanza di anni il suo ricordo in quel luogo fosse ancora molto vivo, sembrava si parlasse di un collega che da poco era andato in pensione! Tutto parlava ancora di lui, dagli allestimenti alle didascalie agli arredi.<br /> Questa situazione stimolò la mia attenzione e curiosità nei suoi confronti. Poi nel tempo, lentamente, prese forma un malcelato disappunto, constatando come di Schiaparelli si parlasse poco o per niente. Negli anni 80 curai la realizzazione di una grande mostra fotografica “Egitto: 5000 anni di storia”, che fu allestita in giro per l’Italia, da Bolzano a Palermo, passando per Milano e Roma, riscuotendo ovunque vasti consensi e procurando grandi soddisfazioni agli organizzatori. Portammo la mostra anche a Biella, patria dell’egittologo, immaginando grandi onori e curiosità nella sua città, invece riscontrammo un tiepido e distaccato interesse! Ecco, in quella circostanza provai una profonda tristezza nel constatare che erano veramente pochi a conoscere “el Professôr” e la sua vicenda archeologica! Da allora ho avviato un’accanita ricerca di documenti e informazioni, Silvio Curto anche in questa occasione mi fu molto vicino, aiutandomi a raccogliere testimonianze anche verbali. Ebbi poi modo di consultare e studiare alcuni archivi contenenti molto materiale inedito, qui a Torino, a Biella, a Occhieppo, poi a Luxor, e a Roma; ebbi anche modo di rintracciare lettere di corrispondenza privata e scoprire come negli anni 70 due valigie di documenti vennero “impastate” insieme al cemento, per la fabbricazione di un muretto di recinzione!<br /> Mi parve dunque opportuno cogliere l’occasione offerta dalla pubblicazione del volume dedicato al Convegno su Schiaparelli, organizzato dall’ACME, e alla scoperta della tomba di Kha, per esporre i primi risultati del mio lavoro, dedicato agli aspetti professionali e umani dell’archeologo e dei suoi collaboratori. <br /> Il suo primo viaggio in Egitto lo portò a soggiornare presso le Missioni Francescane del Cairo e di Luxor. I Frati, in un primo tempo intimoriti dalla sua forte personalità, non tardarono ad accoglierlo fraternamente tra loro, aiutandolo moltissimo nella logistica del lavoro e anche negli scavi! Fu proprio durante questo primo soggiorno in Egitto, che Schiaparelli si rese conto della durezza della vita dei frati, privi di risorse e protezione politica e tornato in Italia diede vita di li a poco, nel 1886, all’ANSMI (Associazione Nazionale per Soccorrere i Missionari Italiani). Grazie al sostegno di tanti personaggi influenti, e ai molti aiuti raccolti, Schiaparelli riuscì a realizzare molte opere umanitarie in Egitto, nel Medio Oriente e in Africa , con scuole, orfanotrofi ed ospedali. La sua costante presenza in Egitto per scopi benefici, finì per favorire notevolmente il suo lavoro di ricerca sul campo, ottenendo spesso il sostegno delle autorità locali. Viaggiò molto, non solo in Egitto: in Terra Santa, in Inghilterra, in Francia , in America e anche in Cina dove a Pechino, nel 1907, ottenne l’autorizzazione per l’erezione di una chiesa, che forse ancora oggi esiste. Morì purtroppo senza aver pubblicato interamente i risultati delle sue dodici Campagne di Scavo, condotte dal 1903 al 1920, che fruttarono al Museo torinese oltre 25.000 reperti, confermandone l’importanza a livello internazionale. Dopo la sua scomparsa avvenuta a Torino nel 1928, gli successe Giulio Farina che per svariate ragioni non ebbe mai particolare interesse di mettere in risalto l’opera del suo predecessore; erano sostanzialmente persone troppo diverse. Intanto scoppiò la Seconda Guerra Mondiale ed in quegli anni particolarmente difficili, la Direzione del Museo venne affidata a Ernesto Scamuzzi che, finita la guerra, fu impegnato in altre emergenze dovute al recupero delle antichità, portate nel castello di Agliè, ed al riallestimento e nuova apertura del Museo. Così l’opera del grande archeologo cadde in un oblio sempre crescente. Sarà Silvio Curto, in anni più recenti, che ne rivaluterà appieno la personalità e l’opera.</p> <p style="text-align: justify;"><strong>Sono ravvisabili a suo parere dei parallelismi, delle analogie fra Ernesto Schiaparelli e Howard Carter? Non ritiene che ambedue siano stati sottostimati.</strong><br /> Innanzi tutto è indispensabile fare una distinzione fondamentale sulle loro carriere: mentre Schiaparelli ha sempre rivestito, sia in Italia che in Egitto, lo stesso ruolo professionale, con incarichi e responsabilità ben definite, Carter invece a vissuto almeno due periodi professionalmente molto differenti. C’è un primo momento che vede un Carter giovanile, alle dipendenze, come Ispettore, del Servizio delle Antichità, era stato ispettore anche in cantieri di Schiaparelli, e certamente fra i suoi colleghi era uno dei più dotati. Il suo carattere molto tempestoso gli creò non pochi problemi, sino al suo allontanamento in seguito ai noti fatti accaduti a Saqqara, ma già prima le tensioni con i superiori erano note, anche se Maspero, conscio del suo valore, lo difese in più occasioni. <br /> Dopo questo primo periodo, che poteremmo definire istituzionale, ebbe inizio la sua lunga collaborazione con il miliardario americano Theodore Davis e poi con Lord Carnarvon, e in questa nuova esperienza con Schiaparelli ebbe ben poco in comune, se non il fatto di aver entrambi messo in luce una tomba inviolata.<br /> Gli inglesi e americani alloggiavano al Winter Palace e bevevano vini provenienti dall’Inghilterra, Schiaparelli e i suoi collaboratori dormivano sotto le tende del Regio Esercito Italiano e bevevano l’acqua del Nilo. Carter era alla ricerca di tesori per fare contento Davis o Carnarvon, mentre Schiaparelli conduceva scavi per arricchire il Museo di Torino. <br /> Con la creazione della Missione Archeologica Italiana (MAI), personalmente finanziata da S.M. Vittorio Emanuele III, lo Schiaparelli scelse di condurre ricerche in località che, oltre ad offrire buone probabilità di risultati, potessero anche, in qualche modo, contribuire a colmare le lacune presenti nel suo museo.<br /> Con la scoperta della tomba di Tutankhamen, Carter si coprì di gloria, tanto da essere richiesto ovunque per tenere pubbliche conferenze, per poi non parlare della stampa che quasi quotidianamente e per molti anni, tenne i riflettori accesi su di lui e sulla sua scoperta. Tutto questo portò inevitabilmente a Carter una notorietà sconfinata, con notevoli ricadute anche economiche!<br /> Per Schiaparelli fu tutto diverso, un lavoro durato una quindicina di anni lontano dai riflettori, con mezzi scarsissimi, in località remote e disagiate, lontane dai servizi e dalle comodità: Gebelein, Qau el Kebir, Hammamia ecc.<br /> Ballerini racconta che era necessario abbrustolire il pane indigeno, per prolungarne la conservazione !<br /> Mi sembra quindi difficile ravvisare degli elementi in comune tra i due ricercatori, se non la viva passione per il loro lavoro e l’irriducibile tenacia.</p> <p style="text-align: justify;"><strong>Come giudica i metodi di scavo di Schiaparelli?</strong><br /> In varie occasioni, specie in passato, ho avuto modo di ascoltare osservazioni critiche rivolte allo Schiaparelli circa i suoi metodi di ricerca. Molte di queste si basavano su vecchie storie dovute a rivalità e invidie esistenti nel mondo accademico e in quello della ricerca di allora; altre più recenti sono dovute alla scarsa conoscenza del come funzionassero i cantieri italiani in Egitto. Del resto ho già detto come l’opera di Schiaparelli fu sempre tenuta in sordina e i documenti mai studiati attentamente: Schiaparelli aveva peraltro una calligrafia orribile!<br /> Debbo tuttavia riconoscere che la frenetica attività di ricerca promossa dallo Schiaparelli e gli straordinari risultati ottenuti, abbiano indotto a fin troppo facili e ingiuste conclusioni. Ma procediamo con ordine: innanzi tutto l’attività di ricerca di Schiaparelli si sviluppò durante i primi anni del secolo scorso e terminò due anni prima della scoperta di Tutankhamon che, nonostante l’eccezionale spiegamento di risorse, non viene normalmente additata come un “esempio da manuale”!<br /> Schiaparelli che invece non aveva alle spalle solide Istituzioni, come avevano le missioni di altri importati Paesi, era costretto ad appoggiarsi per tutti gli aspetti logistici alle Stazioni Missionarie Francescane che, data anche l’esiguità dei fondi disponibili, sopperivano alle necessità, garantendo ai ricercatori un valido appoggio e assistenza costante, collaborando anche agli scavi.<br /> Le missioni dello Schiaparelli duravano molti mesi e si concentravano contemporaneamente in più siti. In ognuno di essi vi era un responsabile dello scavo: Ballerini, Breccia, Rosa ecc. quindi nulla era lasciato al caso. In assenza di Schiaparelli, una fitta corrispondenza, corredata di fotografie numerate e dotate di relativi punti di vista, gli consentiva di seguire gli aspetti più importanti dello scavo, impartendo le necessarie indicazioni .<br /> Nel corso di un recente convegno, un illustre egittologo, non archeologo, segnalava l’inesistenza di qualsiasi rapporto di scavo afferente alle ricerche dello Schiaparelli! Naturalmente questo non è vero e basterebbe conoscere l’esistenza dei materiali per scoprire le piante dei siti e delle tombe scavate, i rilievi delle decorazioni e dei testi, oltre ai numerosi “quadernetti”, veri diari di scavo, tra i quali eccelle quello di Virginio Rosa per i cantieri di Gebelein e Assiut del 1911.<br /> Concludendo credo invece che molte siano state le innovazioni apportate dallo Schiaparelli: dalla rinnovata tecnica di scavo sistematica, ancora nella metà degli anni trenta del secolo scorso nel Basso Egitto si conducevano scavi praticando solo saggi in aree promettenti, all’utilizzo sistematico della fotografia, quale strumento scientifico indispensabile alla documentazione del sito e delle scoperte. Tutto il personale scientifico doveva saper fotografare: Ballerini, Rosa, Savina, Barocelli, Pizzio, ecc. e disponevano di un laboratorio di sviluppo autonomo. Ancora si conservano le pesanti casse che contenevano le apparecchiature che ogni anno da Torino raggiungevano Alessandria. Sono state prodotte oltre 1400 lastre su vetro di grande formato, oltre alle circa 3000, di formato minore: questa non è documentazione!<br /> Ma voglio anche ricordare la sua idea di creare la squadra, con personale tecnico specifico, dal restauratore, al disegnatore, all’antropologo. Quest’ultima una novità assoluta, rappresentata, ancora negli scavi Farina, dalla presenza dell’ illustre antropologo torinese, Giovanni Marro.<br /> Va infine ricordato l’impegno profuso dalle nostre missioni al restauro conservativo di opere destinate a restare in Egitto, la tomba di Nefertari ne fu emblematico esempio !</p> <p style="text-align: justify;">Mi colpisce molto come Moiso provi una certa sofferenza mentre mi espone questi argomenti, glielo dico chiaramente!<br /> Si, queste cose finiscono anche per dare fastidio soprattutto perché, oltre a non corrispondere al vero, vengono divulgate da persone impreparate che inconsapevolmente creano disinformazione. Basterebbe semplicemente documentarsi.</p> <p style="text-align: justify;"><strong>Interviene ancora Mirko: ”Però effettivamente se nel mondo tutti conoscono Carter, molti meno conoscono il nome di Ernesto Schiaparelli e ne riconoscono i meriti”</strong><br /> Ho già detto come inutile sia cercare dei paralleli tra questi due personaggi e le loro scoperte. Sono due storie completamente differenti mosse da interessi diversi che si conclusero con risultati ancora diversi. Più semplicemente ognuno andrebbe ricordato per i propri meriti, che appunto sono diversi!<br /> La straordinaria scoperta della tomba di Tutankhamon catalizzò immediatamente l’opinione pubblica di allora, una tomba tutta d’oro, riappariva dopo otre tre millenni di oblio e non cessava di stupire l’infinita quantità di oggetti del corredo che ogni giorno rivedevano la luce. La scoperta divenne da subito un fatto giornalistico che coinvolse le testate di mezzo mondo. L’aspetto scientifico della scoperta finì per passare in second’ordine, lasciando il posto alla ricchezza del contenuto, alle congetture sulla morte del giovane sovrano , alle vicende giudiziarie che coinvolsero gli scopritori e infine alle maledizioni! <br /> Come avrebbe potuto una tale campagna pubblicitaria non rendere immortale la fama di Carter?<br /> Del resto in quel tempo nessuno ebbe modo e interesse di ricordare come pochi anni prima e a breve distanza dalla Valle dei Re, un ricercatore italiano aveva scoperto un’altra tomba intatta, non reale, ma certamente preziosissima per il suo contenuto, che non era “tutto d’oro”, ma parimenti ad una casa documentava puntualmente, con una straordinaria quantità di oggetti, la vita di tutti i giorni della gente più comune.<br /> Comunque , conoscendo oramai bene il carattere schivo e riservato di Schiaparelli, credo che se anche fosse toccato a lui scoprire la tomba di Tutankhamon, avrebbe certamente trovato il modo per sottrarsi ad ogni tipo di pubblicità e non avrebbe certo accettato di salire agli onori della cronaca.</p> <p style="text-align: justify;"><strong>Lei ha detto che questo è un museo che deve essere rivisitato, ristudiato; alcuni mesi fa sono stato al Metropolitan di New York, certamente magnifico, con la sezione egizia stupenda. Tuttavia ho provato, e forse lei può capirmi, una sensazione di freddo, e ho pensato che forse se un antico egizio lo avesse visitato non si sarebbe trovato a proprio agio, mentre nella loro “vecchiaia” i musei di Torino, Il Cairo, o quello di Firenze, trasmettono un qualcosa che ricorda moltissimo quella terra, mi sbaglio?</strong><br /> Devo spezzare una lancia in favore dei musei moderni. E’ chiaro che un museo, oggi, viene studiato e realizzato per essere fruibile e trasmettere qualcosa alle generazioni moderne, non tanto per piacere a un egiziano di 3000 anni fa. <br /> Poi si deve considerare che il nostro Museo accoglie oramai giornalmente circa duemila visitatori, negli anni sessanta erano tra i duecento e i trecento, pertanto come potrebbe un museo mantenersi inalterato nel tempo? <br /> Un museo non può essere considerato un “museo di se stesso”: un edificio storico, con vetrine storiche, che contengono le antichità disposte su supporti storici. I visitatori vogliono vedere e gustare gli oggetti, liberati da qualsiasi orpello ottocentesco. Del resto tutti i Direttori che nel tempo si sono succeduti alla guida del nostro museo, hanno sempre contribuito al miglioramento degli aspetti espositivi e le nuove vetrine non imitavano certo quelle antiche riprodotte sul celebre quadro del Delleani. <br /> Inoltre anche nei musei tutto è cambiato, il pubblico è più esigente, necessitano adeguati servizi di accoglienza, in particolare per i differentemente abili, per i meno giovani, per le biglietterie e i guardaroba, aree attrezzate per il riposo e la refezione, il tutto realizzato e gestito in ottemperanza delle Norme sulla Sicurezza. Ora le pare che tutto questo potesse essere realizzato lasciando il museo così com’è? <br /> C’è poi il problema dell’esposizione, che certo è il principale. Un museo deve essere facilmente fruibile, deve lasciare un messaggio a tutti, più o meno interessati, deve essere capito e in certo qual modo risultare divertente, stimolando la curiosità. <br /> La mostra realizzata nello statuario, pur senza pretendere di essere un esclusivo modello ispiratore per il futuro museo, ha tuttavia permesso di testare il positivo gradimento del pubblico. Il progetto del nuovo museo, reso pubblico nelle sue linee generali lo scorso anno, prevede un primo traguardo previsto per il 2011 e il successivo completamento, con il trasferimento della Galleria Sabauda, nel 2013.<br /> In questa prima fase, oltre alla realizzazione di quasi tutti i servizi di accoglienza, si potrà visitare il corredo della Tomba di Kha, esposto diversamente in una superficie più ampia. Forse verrà a mancare lo stupore provocato dall’accumulo degli oggetti, come originariamente li trovò Schiaparelli, ma finalmente i visitatori non saranno più costretti a lunghe code per accedervi e goderli pochi minuti. <br /> Le nuove vetrine, essenziali nel disegno e comode nella gestione, consentiranno una adeguata protezione degli oggetti contro gli agenti esterni; ampio spazio verrà poi dedicato all’aspetto didascalico e didattico prevenendo, per quanto possibile, le curiosità del visitatore, anche dei più giovani, aiutati in questo anche dalle moderne tecnologie. <br /> Per concludere credo che il nuovo Museo Egizio costituisca per Torino, per il nostro Paese e per l’egittologia, una importante scommessa che assolutamente è da vincere.</p> <p style="text-align: justify;"><strong>Rifletto su queste ultime parole e ricordo quante visite ho fatto con i miei allievi al museo di Storia Naturale prima e all’Egizio dopo, modo nuovo, innovativo ma unico per studiare per esempio la flora e la fauna dell’antico Egitto!</strong></p> <p style="text-align: justify;"><strong>Continua Moiso come il Nilo in Akhet…</strong><br /> In apertura mi avete chiesto come è scattato il mio interesse per l’antico ’Egitto: Ebbene ricordo le mie prime visite al museo, avevo appena 15 anni, entravo in punta di piedi in questo “santuario” e aggirandomi nelle austere sale, osservavo con tanta curiosità i reperti… poi leggevo: “Canopo, forse da Tebe, Collezione Drovetti, Cat. 3459 ” e pensavo, cos’è un canopo? Dove sarà Tebe, chi è Drovetti? Assaporavo così con delusione la mia non conoscenza della materia ma ancor più la mancanza di qualsiasi supporto didattico che potesse aiutare i visitatori, in particolare i più giovani, ad avvicinarsi a quel mondo fantastico. Così presi ad annotare quelle laconiche didascalie, cercando poi di svelarne l’ermetico contenuto aiutato dall’enciclopedia “Universo”. Intanto leggevo i primi libri che Silvio Curto mi aveva suggerito e che non erano così facili a trovarsi, bisognava farne richiesta alle poche librerie specializzate della città. Fu in quegli anni che Silvio Curto, che da poco era succeduto a Scamuzzi alla direzione del Museo, mi invitò a frequentare la biblioteca del museo e così le cose si semplificarono molto. Oggi fortunatamente non è più così!</p> <p style="text-align: justify;"><strong>Lei frequenta questo museo da molti anni: c’è un reperto a cui è più legato rispetto ad altri, qualcosa che la emoziona di più rispetto ad altri?</strong><br /> Certamente tutti i reperti provenienti dall’ area tebana suscitano in me un particolare interesse, probabilmente perché li sento intimamente legati a quella parte del territorio egiziano che meglio conosco per averlo frequentato, durante i lavori condotti dalla Missione Archeologica dell’Università di Roma, per oltre trent’anni. Tebe, in particolare la riva occidentale, l’abbiamo percorsa palmo a palmo, visitandone tutti i monumenti e le tombe, allora le chiavi delle tombe non visitabili dai turisti, erano custodite presso l’ispettorato di Beit el Medina e gli ispettori, sempre molto disponibili verso le Missioni Archeologiche, non avevano difficoltà ad aprircele e lasciarcele fotografare, dopo aver rimosso il muro a secco che ne proteggeva l’ingresso. Ancora oggi i componenti delle Missioni Archeologiche beneficiano di uno speciale permesso di visita ai monumenti che viene rilasciato direttamente dal Servizio Generale delle Antichità del Cairo.</p> <p style="text-align: justify;"><strong>Anche lei soffre molto quando, per esempio, a Deir el Medina si vedono solo tre tombe aperte e sa che intorno ce ne sono molte altre di bellissime che purtroppo non sono visibili ?</strong><br /> Sì certo posso capire la delusione, tuttavia in questo io sono stato fortunato poiché, come quelli della mia generazione, ho avuto la possibilità di conoscere un Paese molto diverso dall’attuale e non soltanto per la maggiore libertà di accesso alle antichità, ma anche per tutto il mondo che le circonda, abbiamo raccolto le ultime testimonianze di un Egitto che, come tanti altri paesi, è poi profondamente cambiato.<br /> Abbiamo avuto il piacere di conoscere persone che hanno rappresentato l’egittologia e l’archeologia dei tempi andati: la gentilezza di Labib Habasci e della moglie Attija, l’accoglienza di Carla Maria Burri, allora alla Direzione dell’Istituto di Cultura Italiano al Cairo, dove ogni anno passavamo prima di iniziare gli scavi per prelevare i soliti due volumi del Porter Moss, relativi alla necropoli di Tebe e l’inseparabile Olivetti Lettera 22, per la redazione dei rapporti di scavo. C’erano poi le cene a base di sangria a Malqata, ospiti della Christiane Desroches Noblecourt e gli inviti della Edda Bresciani nella sua casa all’Asasif, che allora era impegnata allo scavo del tempio di Tutmosi IV. E poi gli inviti del direttore della Chicago House, per la festa di halloween, che noi in Italia non avevamo ancora, fortunatamente, scoperta e tanti tanti altri ricordi. E già, perchè è passata una vita.</p> <p style="text-align: justify;"><strong>Però, scusi se insisto, non mi ha ancora detto quale è, se c’è, il suo pezzo preferito nel museo ?</strong><br /> Non vorrei deluderla ma non sento una particolare attrazione verso un singolo reperto. Sicuramente nella statuaria del nostro museo ci sono pezzi straordinari invidiati da tutto il mondo, le statue dei Tuthmosi per non parlare di quella di Ramesse II, poiché è troppo facile. Penso poi ai papiri, come ad esempio a quello delle Miniere o quello dello sciopero, anche se molto mi attizzano i due contenenti lo sviluppo della tomba reale di Ramesse IV.<br /> Infine amo tutto il materiale che rappresenta il quotidiano e serve a immaginare la vita di tutti i giorni. Una solenne statua immaginata nel cortile assolato di un tempio è certo una visione aulica dell’Egitto, ma una piccola ghirlanda di fiori appassiti, posta da mani pietose sulla bara della persona amata, ha un valore ancora più grande!</p> <p style="text-align: justify;"><strong>Concludo qui. È stato un incontro molto emozionante e toccante. Esco dal Museo ancora più ricco di prima; quando lo visiterete ricordate che è tale grazie a persone come Moiso che lo amano per il piacere di amarlo senza mai chiedere nulla e senza troppe esposizioni mediatiche! Sono felice che anche Moiso abbia concluso la chiacchierata ricordando la quotidianità dell’antico Egitto e delle persone comuni che lo hanno popolato. </strong></p> <p style="text-align: justify;">Gennaio 2010  – Sandro Trucco</p> <p style="text-align: justify;">Grazie a Mirko Balocco per la disponibilità <br />  </p>
Have your say!